mente, Trump ha rafforzato i rapporti con Paesi come le Filippine attraverso una maggiore cooperazione militare e iniziative congiunte per la produzione di munizioni. I dazi e le restrizioni tecnologiche hanno spinto la Cina a ridurre la dipendenza dalla tecnologia statunitense, avvicinandola al contempo alla Russia e ad altri partner. La formazione di nuovi partenariati economici, come i meccanismi di cooperazione Cina-Russia-India, mostra come l’approccio unilaterale di Trump abbia involontariamente contribuito a creare contro-coalizioni. Anche la politica verso la Corea del Nord ha messo in luce sia il potenziale sia i limiti della diplomazia personale all’interno del quadro della pace attraverso la forza. Nonostante gli incontri di alto profilo con Kim Jong Un, le capacità nucleari nordcoreane hanno continuato a svilupparsi e i legami con la Cina si sono rafforzati. Medio Oriente: “Massima Pressione” La politica di Trump in Medio Oriente ha innescato una serie di riallineamenti. Riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e favorendo gli Accordi di Abramo con Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, la sua amministrazione ha ridisegnato lo scenario diplomatico regionale in modi inattesi. Allo stesso tempo, tali mosse hanno intensificato la percezione di isolamento dell’Iran, spingendolo ulteriormente lungo il percorso di avanzamento nucleare e indebolendo il già fragile regime di non proliferazione, con un aumento delle tensioni regionali. La strategia della “pace attraverso la forza” ha prodotto risultati misti ma rilevanti. L’approccio duro verso l’Iran — ritiro dal JCPOA, reintroduzione di sanzioni pervasive e autorizzazione di attacchi militari contro strutture nucleari — era pensato per costringere Teheran a cedere. Nel breve termine, alcuni di questi obiettivi sono stati raggiunti: il ciclo di scambi missilistici tra Iran e Israele si è interrotto grazie a un’escalation calibrata, dimostrando che la dottrina può produrre risultati in determinate condizioni. Ma le conseguenze più ampie si sono rivelate complesse: la guerra a Gaza e l’“intento di commettere genocidio”, riconosciuto dalla Corte Internazionale di Giustizia, hanno ulteriormente messo in luce punti di forza e debolezza dell’approccio trumpiano. Trump è riuscito a ottenere un cessate il fuoco temporaneo attraverso pressioni mirate, ma la sua controversa proposta di ricollocare i palestinesi e trasformare Gaza in una “zona economica speciale” è stata ampiamente condannata. È stato un chiaro promemoria del fatto che, sebbene la forza possa produrre svolte diplomatiche, rischia anche di generare instabilità e reazioni ostili quando non è accompagnata da un ampio sostegno internazionale. Africa: tagli al budget In Africa, i tagli all’assistenza estera e la chiusura o il declassamento di numerose missioni diplomatiche hanno segnato un ritiro dagli impegni di lunga data nello sviluppo e nella sicurezza. Invece di un sostegno diffuso, Washington ha perseguito accordi mirati volti a garantire l’accesso a risorse naturali e porti strategici, con Paesi come la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia al centro di queste iniziative legate all’estrazione e ai diritti di installazione militare. Questo approccio ristretto si è discostato dalla precedente cooperazione multilaterale, lasciando spazio all’espansione dell’influenza cinese attraverso i progetti della Belt and Road Initiative e gli scambi commerciali. Pur mantenendo una certa presenza militare, gli Stati Uniti hanno inquadrato tale presenza quasi esclusivamente in termini transazionali, focalizzata sulle operazioni antiterrorismo e sulla protezione degli interessi economici americani, piuttosto che sul sostegno alla stabilità regionale. La dottrina di politica estera di Donald Trump ruota attorno al concetto di “pace attraverso la forza”. Questo approccio si basa sull’idea che la forza militare e una minaccia credibile possano dissuadere i conflitti e costringere gli avversari a negoziare a condizioni favorevoli La Rivista · Ottobre - Dicembre 2025 18
RkJQdWJsaXNoZXIy MjQ1NjI=