La Rivista

Se l’italiano diventa la lingua della pace La Rivista Cultura L e lingue, presupposto essenziale per il dialogo tra le culture e tra i popoli, sono un prezioso strumento a servizio della costruzione e del mantenimento della pace, della prevenzione dei conflitti e della cooperazione tra gli Stati e tra le comunità di persone». Queste parole, tratte dalla Dichiarazione fondativa della Comunità dell’Italofonia, sono più di un’affermazione di principio. Queste parole sono un invito all’azione: ci ricordano che la lingua è un veicolo di valori condivisi e una via per perseguire la pace. Ciò che inauguriamo oggi non nasce dal nulla, è la piena manifestazione di una realtà che già esiste. E ora le stiamo dando un nome. L’Italia — e la lingua italiana — sono già presenti in ogni continente. Grazie alla forza degli emigrati di questo Paese, alla forza della sua economia e dei suoi investimenti, alla cultura, all’arte e alla fantastica gastronomia, l’Italia è diventata una presenza globale ben oltre i suoi confini. Gli italiani si sono affermati nel mondo non come soldati ma come cittadini globali. Hanno creato civitates — comunità di cittadini, luoghi di parole, valori e intenti condivisi. Una comunità di lingua e di valori che trascende la geografia La Comunità dell’Italofonia è una comunità di lingua e di valori che trascende la geografia. Attraverso questa comunità siamo tutti diplomatici — ambasciatori di questi valori. L’Italia vanta una ricca tradizione diplomatica e la sua lingua è stata un formidabile veicolo di progresso e comprensione reciproca. Tra il XIV e il XVI secolo l’italiano fu la lingua franca della diplomazia, parlata nelle corti e nelle ambasciate d’Europa. Da Venezia a Firenze a Milano i dispacci degli ambasciatori erano redatti nell’elegante prosa del Rinascimento, riflettendo l’acume politico e la visione umanistica che segnarono la rinascita intellettuale del continente. Le parole di Guicciardini, Castiglione e naturalmente anche Machiavelli hanno plasmato il vocabolario stesso della diplomazia. “Ambasciata”, “protocollo”, “intesa”: ancora oggi il nostro lessico diplomatico porta l’inconfondibile eco di origini italiane. Secoli dopo, nel 1957, in questa stessa città si compì un’altra creazione diplomatica: la firma dei Trattati di Roma. Fu uno dei progetti più impressionanti del Novecento: un atto di fede nella cooperazione e nella pace internazionali dopo un’era di devastazione. La visione di Alcide De Gasperi e dei suoi contemporanei era chiara: sarebbe stata l’unità, non la conquista, a definire il futuro dell’Europa. Nel suo approccio alla diplomazia De Gasperi offrì un contrappunto al celebre detto di Clausewitz secondo cui «la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Per De Gasperi la diplomazia è la continuazione della pace con altri mezzi. Nel mondo non come conquistatori ma come costruttori A differenza di molti altri Paesi europei, l’influenza globale dell’Italia non è stata costruita attraverso la dominazione ma grazie alle ricchezze della sua cultura, agli investimenti, all’innovazione e al lavoro di persone comuni. Gli italiani sono andati nel mondo non come conquistatori ma come costruttori — di città, ferrovie, cultura e comunità. Ovunque siano giunti hanno creato ricchezza, benessere e solidarietà. L’Italia li ha accompagnati a ogni passo. Conosco molto bene questa storia. Titolo evocativo e programmatico quello del discorso pronunciato lo scorso 18 novembre a Roma dal direttore generale dell’Aiea*, Rafael Mariano Grossi, in occasione della Conferenza internazionale dell’Italofonia « La Rivista · Ottobre - Dicembre 2025 44

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